Dopo che l’Autorità indipendente ha contestato le nuove condizioni troppo generose ad Autostrade, che influenzano la trattativa, De Micheli ha negato ogni responsabilità e minaccia querele. Ma i documenti la inchiodano
- Il governo ha garantito ad Autostrade per l’Italia una dinamica tariffaria così generosa (a spese di automobilisti e autotrasporto) da generare e dividendi agli azionisti per complessivi 21 miliardi in 18 anni.
- Questo ha un impatto nella trattativa tra Atlantia e Cassa depositi e prestiti per cedere il controllo di Autostrade: più la società è redditizia, più è alto il prezzo.
- Il paradosso è che il governo, con i suoi errori, è riuscito a consentire alla società dei Benetton, accusata per il crollo del Morandi e dei 43 morti, di atteggiarsi a parte lesa e battere i pugni sul tavolo.
FOTO
09/09/2020 Roma, conferenza stampa sulla scuola. Nella foto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli
La verità sul pasticcio in cui si è infilato il governo con la vicenda di Autostrade per l'Italia (Aspi) è scritta in due lettere. La prima è una missiva «riservata personale» scritta il 13 marzo scorso dalla ministra delle Infrastrutture e Trasporti (Mit) Paola De Micheli al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La seconda l'ha scritta al Mit il 17 ottobre l'amministratore delegato di Aspi Roberto Tomasi.
La lettura incrociata dei due documenti dimostra che il nuovo piano economico finanziario (Pef) - che garantirebbe alla concessionaria controllata dalla famiglia Benetton il mantenimento della sua rendita miliardaria fino al 2038 - non è la lettera scritta a babbo Natale da Tomasi in vista delle prossime festività, ma il risultato di una serrata trattativa tra lo stesso ministero guidato da De Micheli e il gruppo Atlantia - che possiede l'88 per cento di Aspi ed è a sua volta controllato dai Benetton con il 30 per cento delle azioni.
Questo spiega la difficoltà per il governo di innestare la retromarcia e smentire gli accordi già presi da De Micheli e dai massimi dirigenti del Mit con gli emissari di Luciano Benetton: in pratica è stata garantita ad Aspi una dinamica tariffaria così generosa (a spese di automobilisti e autotrasporto) da spesare a un tempo nuovi investimenti per 14,5 miliardi e dividendi agli azionisti per complessivi 21 miliardi in 18 anni, una redditività che nemmeno la più piratesca delle criptovalute si sognerebbe di promettere al più fesso degli adepti. E questa sarebbe la severa sanzione studiata dal governo Conte per punire i Benetton e i loro potenti soci stranieri per il crollo del ponte Morandi e la morte di 43 persone.
È così che il 14 ottobre scorso il presidente uscente dell'Autorità di regolazione dei trasporti (Art) Andrea Camanzi ha pubblicato il suo parere, obbligatorio ma non vincolante per il governo, sul nuovo Pef in via di approvazione. Se il piano venisse corretto recependo le indicazioni di Camanzi, il prezzo di vendita di Aspi potrebbe subire un drastico ribasso, da 11-12 miliardi a non più di 6-7.
La ministra De Micheli ha reagito alla pubblicazione dei segreti del Pef negando di esserne responsabile e annunciando azioni legali contro questo giornale. In realtà la nuova struttura tariffaria di Autostrade per l'Italia - oltre la metà della rete autostradale nazionale - è stata decisa dal suo ministero.
Camanzi dice per esempio che l'aumento delle tariffe «predeterminato» nell'1,75 per cento all'anno per i prossimi 18 anni è troppo alto. Ballano almeno 4 miliardi di pedaggi in più da pagare e da incassare. De Micheli ha sostenuto che quella roba l'ha scritta Aspi. Vediamo i fatti.
La proposta di De Micheli
Quando è iniziata la trattativa sul nuovo piano tariffario, proposta dalla stessa Aspi come "capitolazione" e pena alternativa alla revoca della concessione, gli uomini di Atlantia avevano chiesto un aumento automatico delle tariffe del 2,4 per cento all'anno. Nella lettera «riservata personale» a Conte la ministra gli confida che, visto che l'ultima proposta di accordo di Aspi non è stata ritenuta dall'Avvocatura dello Stato «satisfattiva», lei ha deciso di fare una controproposta nella quale, accanto ad alcune novità, figura un punto preciso: «Accettazione di Aspi del profilo tariffario dell'1,93 per cento». È De Micheli che propone, è Aspi che «accetta».
Il 14 luglio scorso, con lo storico accordo di palazzo Chigi con cui il governo si dava l'aria di aver rovinato i Benetton, Aspi accetta un nuova limatura, il mitico 1,75 per cento finale. Nell'intesa di quella notte entra anche l'obbligo di vendere Aspi alla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp).
Il passaggio è importante. Da quel momento la trattativa sul Pef non riguarda più i futuri dividendi incassati da Atlantia ma i futuri guadagni di Cdp. E quando si predetermina la redditività di un'azienda ovviamente se ne definisce indirettamente il prezzo. Questo è il punto cruciale.
Per Cdp il dato è indifferente: se Aspi renderà meno la pagherà meno, se renderà di più la pagherà di più, per cui il rendimento del capitale (pubblico) investito resterà lo stesso. La differenza è tutta per Benetton e compagnia: Pef generoso vuol dire vendere a 11 miliardi, Pef rigoroso vuol dire vendere a molto meno.
L’accordo è valido
E' lì che il ministero guidato da De Micheli conferma la sua scelta per il Pef sontuoso che promette ad Aspi 1,1 miliardi di dividendi all'anno fino al 2038. Il 23 luglio, mentre è nel vivo la trattativa sul prezzo di vendita in ossequio al ridicolo annuncio di impiegare solo due settimane, Tomasi di Aspi scrive al Mit: «La Società, in ottica transattiva e nell'ambito della più ampia condivisione (...) in riduzione a quanto ritenuto spettante alla concessionaria stessa, ha accolto la richiesta formulata dalle amministrazioni di applicare l'incremento medio annuo pari a 1,75 per cento». L'aumento «predeterminato» l'ha deciso il Mit, forse all'insaputa della ministra.
Infatti adesso la storia si infiamma. Mentre a palazzo Chigi e al ministero dell'Economia si promette una linea della fermezza secondo cui il Pef deve essere rivisto secondo le indicazioni di Camanzi, l'ad di Aspi Tomasi ha già preso le sue contromisure. Il 17 ottobre scorso ha scritto al ministero una dura lettera in cui sostiene che il Pef, frutto di mesi di trattative, è un accordo da rispettare e non una richiesta della concessionaria, e «costituisce un unicum con l'accordo per la definizione negoziale della Procedura».
Prosegue Tomasi: «Qualora venisse meno quanto pattuito relativamente al Pef la scrivente si vedrà costretta ad attivare tutte le azioni a propria tutela». In sostanza, se il governo non conferma il regalo miliardario (a spese di chi paga i pedaggi) salta tutto l'accordo.
Il paradosso di questa vicenda è che il governo, con i suoi errori, è riuscito a consentire alla società dei Benetton, responsabile del crollo del Morandi e dei 43 morti, di atteggiarsi a parte lesa e battere i pugni sul tavolo.
Forse era prevedibile, con una ministra delle Infrastrutture che anziché mettere a posto i Benetton occupa il suo tempo aggredendo i giornali.
© Riproduzione riservata